martedì 20 maggio 2014

Il mio nome è Shangai Joe

1973, di Mario Caiano. Con: Chen Lee, Klaus Kinski, Gordon Mitchell, Robert Hundar (Claudio Undari), Giacomo Rossi-Stuart, Piero Lulli, Katsutoshi Mikuriya, Carla Mancini, Carla Romanelli.



L’accoppiamento al limite dell’incestuoso tra lo spaghetti western (ormai sul viale del tramonto) ed il kung fu movie (nel suo periodo di maggior fulgore, sulla scia del successo planetario di Bruce Lee) in linea teorica avrebbe potuto generare un mostro a tre teste, uno Z movie della peggior specie della serie “Godzilla e Maciste contro Zorro e Goldrake”. Invece, questo bislacco esperimento è riuscito in pieno, restituendo anzi allo spaghetto un’iniezione di linfa vitale al di fuori della deriva fagiolesca e comicarola. Il film è infatti violentissimo e privo di venature comiche, con alcune scene decisamente splatter, ben oltre lo standard del western all'italiana. Basti pensare all’occhio cavato col colpo di kung fu (che ricorda tanto l’omologa sequenza del Kill Bill tarantiniano), lo scalpo recapitato a mezzo posta, il braccio mozzato ed il colpo finale (lascio il gusto di scoprire di cosa di tratta con la visione del film…), che è un po’ la ciliegina su una torta farcita di sangue. E se da un lato la regia di Caiano (comunque ottima nel complesso, così come la fotografia di Guglielmo Mancori e la colonna sonora di Bruno Nicolai) eccede in alcuni momenti, enfatizzando le scene d’azione e pirotecniche con un montaggio un po’ affannoso che cerca di colmare le lacune di budget e la conseguente pochezza degli effetti speciali - rasentando il labile confine con il comico involontario - dall'altro il tratteggiamento fumettistico dei quattro sicari inviati dall'antagonista Spencer (uno spregiudicato signorotto locale dedito al commercio di peones messicani come schiavi, interpretato da Piero Lulli) per far fuori il nostro paladino sono da culto totale ed immediato. I loro nomi sono già tutto un programma: Pedro il Cannibale (il grande Robert Hundar, alias Claudio Undari) - non si dice molto di lui, ma non ci vuole Sherlock Holmes per capire che si tratti di un Hannibal Lecter ante litteram - Sam il Becchino (Gordon Mitchell), che ha il vezzo di seppellire le sue vittime ancora vive, Tricky, l’immancabile gambler (Giacomo Rossi-Stuart, padre del più celebre Kim) e, dulcis in fundo, Scalper Jack, impersonato dall'immenso ed immarcescibile Klaus Kinski con in dosso un buffo cappello che gli accentua le orecchie a sventola, che se ne  va a zonzo per il Texas con una serie completa di coltelli di varia dimensione infilata nella fodera interna della giacca: d'altronde la precisione è irrinunciabile, se il fine è ottenere uno scalpo fatto a regola d’arte, soprattutto quando serve ad impreziosire la propria collezione privata di bambole.

Il protagonista, Chen Lee (che poi nella  realtà non si chiamava così, ma la tentazione dell’assonanza con il nome della super star del kung fu movie, Bruce, è stata troppo forte, e per altro non era neppure cinese ma giapponese) non è un attore professionista ed è stato reclutato essenzialmente per la sua abilità con le arti marziali. Ma a suo modo funziona, anche grazie al doppiaggio di Ferruccio Amendola che in alcune sequenze lo fa sembrare la controfigura orientale del Dustin Hoffman di quegli anni (grazie ad una vaga somiglianza tra i due). Certo, non dà il meglio di sé nelle scene d’amore (in tutto questo trambusto, gli sceneggiatori hanno trovato il tempo di infilare anche una sottotrama sentimentale tra l’aspirante cowboy dagli occhi a mandorla e la figlia di uno dei peones messicani salvati da Shangai Joe).

Il duello finale non poteva che essere di sole arti marziali, e così è stato: il perfido Spencer, preso atto della disfatta dei quattro sgherri, fatti fuori uno ad uno da Shangai Joe, si affida a Mikuja, temibile esperto di arti marziali allievo dello stesso maestro del Nostro. I due hanno pure il medesimo simbolo rosso tatuato sull’avambraccio.
Finale in pieno stile spaghetti, con il cowboy (?) che abbandona l’amata e parte verso lidi sconosciuti alla ricerca della sua dimensione.
A latere, è curioso evidenziare che, seppur di grana grossissima, il film presenta una esplicita e feroce critica al razzismo ed al capitalismo a stelle e strisce (evidentemente mutuata dai tortilla western), un elemento che aggiunge ulteriore carne al fuoco di questo caleidoscopico esperimento cinematografico pur senza alternarne – incredibilmente – l’equilibrio.


venerdì 16 maggio 2014

Preparati la bara!

1968, di Ferdinando Baldi. Con: Terence Hill, Horst Frank, George Easrtman (Luigi Montefiori), José Torres, Pinuccio Ardia, Luciano Rossi.




In pratica è il prequel del Django corbucciano, ed è pure ammantato da una parziale aura di “ufficialità” (se rapportato al mare di Django apocrifi che hanno popolato il mondo degli spaghetti), considerato che lo sceneggiatore (Franco Rossetti) e il direttore della fotografia (Enzo Barboni, al suo ultimo lavoro in tale ambito prima del passaggio alla regia) sono gli stessi ed inizialmente il protagonista doveva essere proprio Franco Nero, che ha poi desistito a causa di impegni assunti su altri set. 
Ad ogni modo, è certamente fra i migliori django-derivati mai prodotti, anche se la regia di Baldi, pur ineccepibile e non priva di soluzioni pregevoli, non riesce a raggiungere il livello del fuoriclasse Corbucci.
Terence Hill – qua all'apice del suo ruolo di rincalzo di Franco Nero, qualità che gli è valsa il biglietto di ingresso nel mondo del western all'italiana – è certamente molto efficace e convincente nell'impersonificazione del sulfureo protagonista nerovestito, anche se in filigrana dietro quello sguardo di ghiaccio si percepisce la sua natura bonaria e perennemente canzonatoria, che potrà poi manifestarsi in tutta la sua magnificenza con Trinità e Nessuno. Ciò per dire che le occhiatacce più cupe e tenebrose di Franco Nero avrebbero impreziosito l’atmosfera di un sapore ancora  più gotico e lugubre. Il film resta comunque violentissimo, dal body count estremo (anche grazie alla pioggia di piombo finale, lascio immaginare cosa estragga Django dalla bara alla resa conti…) e certamente di un pessimismo strisciante, visto e considerato che oltre alla pletora di personaggi stecchiti, il tradimento è il  sentimento dominante e alla fin fine non si salva proprio nessuno, neppure il protagonista, già morto nel cuore (lui stesso si prepara la lapide nell’incipit, dopo l'uccisione della moglie) e mosso ormai soltanto dalla sete di vendetta.
Ottimo il parterre dei villain, guidati dal sempre efficace Horst Frank (una sorta di Kinski meno istrione e più disciplinato) e dal gigantesco (letteralmente) George Eastman (alias Luigi Montefiori: ve lo ricordate Sefano Bertoni in Regalo di Natale di Pupi Avati?).
Ennesimo timbro sul cartellino della premiata ditta spaghetti western per il quasi sempre presente (e grande) Luciano Rossi, questa volta nell'insolito ruolo del sano di mente e non del consueto violento psicopatico.
Musiche buone di un non addetto al genere, Gian Franco Reverberi. La canzone che spadroneggia nel finale You' d better smile è cantata da Nicola di Bari.








martedì 13 maggio 2014

Ciakmull - L'uomo della vendetta

1970, di Enzo Barboni. Con: Leonard Mann, Pietro Martellanza, Luigi Montefiori, Woody Strode,
Helmuth Schneider, Ida Galli, Alain Naya, Luciano Rossi.

Esordio alla regia di Enzo Barboni (noto alle cronache del tempo come E.B. Clucher), già ottimo direttore della fotografia in alcuni western italiani, su soggetto del co-creatore di Django (nonché regista di El desperado) Fanco Rossetti.
Precisiamolo subito: la storia è seria, con morti ammazzati e drammatici risvolti psicoanalitici. Pur tuttavia, l’indole “caciarona”  di Barboni (descritto dai più come persona simpaticissima, sempre incline alla battuta e costantemente alla ricerca del risvolto comico delle situazioni, anche in ambito professionale), quella che da lì a pochissimo avrebbe fatto la sua fortuna, grazie alla creazione di Trinità e del filone fagioli-western, è già intuibile in filigrana in questa pellicola.
C’è una scena, in particolare (che infatti stona non poco con la linea diegetica del film), in cui c’è concentrato in pillole tutto, ma proprio tutto il nocciolo duro della “poetica” di quello che sarà poi il suo cavallo vincente, cavalcato in pompa magna da Bud Spencer e Terence Hill. Si tratta della sequenza girata nel saloon. Nell'arco di pochi minuti assistiamo, nell’ordine a: 
1) una mega scorpacciata di fagioli; 
2) una pirotecnica partita a poker con mazziere funambolico; 
3) una super scazzottata in odor di slapstick comedy dall'esito letale per i "cattivi" (tra cui, il sempre presente Luciano Rossi).
“Trinitismo” in nuce a parte, il film ha un robusto pregio nella sceneggiatura, che scorre via con un buon ritmo e si basa sulla storia piuttosto originale di un velocissimo pistolero che ha perso la memoria e si ritrova misteriosamente rinchiuso in un manicomio criminale, e un difetto nella regia fin troppo accademica e un po' piatta (forse proprio perché non era il tipo di western adatto a Barboni, più incline al baracconesco) e nella recitazione non certo perforante del protagonista, il belloccio ma anonimo americano Leonard Mann, coadiuvato da un gruppo di comprimari che paiono uno il clone dell’altro (Pietro Martellanza e Luigi Montefiori, alias Peter Martell, e George Eastmann), con l’eccezione dell’ottimo ed erculeo Woody Strode.
Come accennato, la parte più interessante della pellicola risiede nello sviluppo della vicenda cucita addosso al protagonista senza memoria ed ai suoi tre compari di sventura che, dopo una prima parte di film itinerante e picaresca (la fuga dal manicomio, il viaggio verso il paese di provenienza alla ricerca delle origini e della memoria perduta, ma anche del consueto motore dello spaghetto: l’oro), risolve in tragedia, colma di risvolti psicoanalitici (il rapporto col padre e col fratello), con il finale per certi versi irrisolto (la domanda cruciale rimarrà senza una risposta certa), corroborato dal topos del pistolero che, ormai solo (nel caso di specie, poi, non solo noi, ma neanche lui sa da dove viene con esattezza!), si allontana verso lidi sconosciuti.
Degnissima colonna sonora di Riz Ortolani.