giovedì 5 luglio 2012

Se sei vivo spara

1967, di Giulio Questi. Con Tomas Milian, Ray Lovelock, Marilù Tolo, Roberto Camardiel, Piero Lulli, Francisco Sanz, Sancho Garcia, Patrizia Valturri.


Western assolutamente atipico e sui generis, molto violento (Giulio Questi dice di aver attinto per la rappresentazione delle scene più cruente ai suoi ricordi di partigiano durante la seconda guerra mondiale), che ammicca in più di un’occasione al genere horror, se non nella sostanza, certamente nella forma e nello stile.
Ma non solo: essendo il nostro uno dei registi più originali ed innovativi del periodo (seppur, ahimè, poco prolifico), convinto sostenitore del cinema come manifestazione della pop art (magnifico il suo bizzarro giallo La morte ha fatto l'uovo del 1968, con Trintignant e la Lollo), vari  elementi del film possono essere letti in questa chiave. A partire dalla citata commistione di generi normalmente distanti tra loro e dalla presenza di elementi bislacchi - come ad esempio il gruppo di cowboy omosessuali o le pallottole fatte d’oro - all’utilizzo molto peculiare del montaggio (del fido e inseparabile Kim Arcalli), del fuori fuoco e della fotografia, a tratti luminosissima, al limite della sovraesposizione, in piena dicotomia con il buio morale della quasi totalità dei personaggi.
Epocale la scena iniziale, quando Tomas Milian, ferito ma ancora vivo, spunta a mo’ di zombie dalla buca che lui stesso si era scavato sotto minaccia (Kill Bill Vol. 2?), così come la colata aurea sul finale, che mi è parsa un'appassionata citazione visiva a certi horror degli anni '50, tipo Il mostro della laguna nera.

È un film unico, per certi versi estremo (fra i pochi "spaghetti" pesantemente censurati al momento dell'uscita nelle sale, forse l'unico), che si ama o si odia: per chi scrive è fra le vette del genere, e non solo. Un compendio di fantasia, coraggio, sperimentazione, ma al contempo di equilibrio e bravura nel far si che lo stile bislacco e sopra le righe non predominasse sugli aspetti narrativi, annullandoli e facendoli diventare mero pretesto e vetrina per l'esposizione di idee originali, e il tutto a basso, bassissimo budget. Erano proprio altri tempi per cinema italiano (sigh).

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