giovedì 11 ottobre 2012

Prega il morto e ammazza il vivo

1971, di Giuseppe Vari. Con: Klaus Kinski, Paolo Casella, Victoria Zinny, Patrizia Adiutori, Dino Strano, Dante Maggio, Anna Zinnemann, Goffredo Unger, Aldo Berberito.

Tardo spaghetto di Giuseppe Vari, dall'evidente budget particolarmente risicato (le - poche - scenografie ed i costumi sono davvero poverissimi) ma dai risultati tutt'altro che disprezzabili.
Il plot ricalca per l'ennesima volta i temi della vendetta, da un lato, e dell'oro quale fine ultimo dell'esistenza dall'altro, fondendoli però con una certa originalità all'interno di un impianto narrativo che, come ricorda Marco Giusti nel suo Dizionario del western all'italiana, pare rifarsi più a certi noir americani (su tutti Ore disperate di William Wyler del 1955, con Bogart)  che non agli spaghetti western, a conferma della più volte citata teoria del genere-contenitore.
Il film - che, a latere, si caratterizza per il fatto che si spara pochissimo, con conseguente striminzitissimo body count - si divide nettamente in due parti. La prima, molto statica, quasi teatrale, si svolge quasi per intero all'interno di una stazione postale, dove i personaggi disvelano a mano a mano la loro psicologia, fra dialoghi, monologhi e l'epifania di inevitabili tensioni che portano a scontri verbali e fisici. La seconda, è incentrata sull'impervio viaggio che i protagonisti (una banda di fuorilegge che hanno appena svaligiato una banca, con ostaggi femminili al seguito) devono affrontare attraverso gli inospitali e desertici territori del "passo dello sciacallo", guidati dal misterioso avventuriero John Webb (Paolo Casella) verso il confine messicano.
Dan Hogan
A capo dei banditi, nei panni di Dan Hogan, c'è un incontenibile Klaus Kinski, vero mattatore della pellicola, che a conti fatti è il reale valore aggiunto del film, e che primeggia senza pietà su un cast senza infamia e senza lode, a partire dal protagonista "buono", l'anonimo Paolo Casella, che pare il clone del non già eccessivamente espressivo Anthony Seteffen. 
Il film piace molto a Tarantino, che lo ha incluso nella lista dei suoi venti spaghetti western preferiti. La cosa non stupisce, anche perchè l'autoannientazione della banda criminale che prende forma a mano a mano col passare dei minuti, porta alla mente alcuni aspetti del suo esordio Le iene (Reservoir Dogs). 
La regia di Vari è assolutamente pregevole, soprattutto nell'utilizzo non banale ed efficace dei primissimi piani e di certe inquadrature dall'angolazione inusuale. Più che buona anche la colonna sonora di Mario Migliardi, piuttosto originale, non essendo propriamente in linea con i commenti musicali più tipici del western italiano.


domenica 30 settembre 2012

Quel caldo maledetto giorno di fuoco

1968, di Paolo Bianchini. Con: Robert Woods, John Ireland, Roberto Camardiel, Rada Rassimov, Claudie Lange, Ida Galli, Georges Rigaud, Gérard Herter, Tom Felleghy, Ennio Balbo, Tiziano Contini.

Quel caldo maledetto giorno di fuoco è un caso quasi paradigmatico (ed estremo) di utilizzo del western come contenitore, una delle grandi intuizioni dei registi italiani che si cimentarono con il genere dagli anni '60 a seguire. Nella pellicola in questione, infatti, il western si limita ad essere mero recipiente di quello che è un film di spionaggio a tutti gli effetti, dove la guerra fredda tra USA e URSS è sostituita dalla guerra di secessione americana tra Unionisti e Confederati ed in cui ritroviamo tutti i cliché e gli elementi caratterizzanti del genere spionistico. E non si tratta di una mera riproposizione di un personaggio e di alcune sue caratteristiche come era avvenuto con altri spaghetti (basti pensare al debito che Sartana ha acceso in favore del James Bond cinematografico), ma della completa traslitterazione di tutte le peculiarità di un genere all'interno di un altro, che si limita a fare da involucro: del western troviamo l'ambientazione storica e la conseguente caratterizzazione dei personaggi, ma per il resto lo script si rifà pedissequamente allo spionaggio. Spie, traditori, intricatissimi sotterfugi, un villain preda di deliri di onnipotenza (tiene in pugno sia i nordisti che i sudisti con la super arma - una mitragliatrice - sottratta, contestualmente al suo inventore, agli uni per poi ricattare entrambi), di cui conosciamo la voce ma che svela il suo volto solo verso il finale, e tanto di love story conclusiva tra la spia nordista e l'affascinante e bellissima spia sudista. E potrei continuare.
L'innesto funziona - soprattutto agli occhi di chi, come lo scrivente, ama tanto il western quanto lo spionaggio - soprattuto grazie alla prova registica di Paolo Bianchini, che dimostra di sapersi muovere dietro la macchina da presa con eccellente tecnica e con una certa inventiva. Non è un caso che questo film, non conosciutissimo, sia molto amato da Quentin Tarantino, che lo ha citato in almeno un paio di circostanze: Kill Bill Vol. 2 e l'episodio da lui diretto della serie tv C.S.I., intitolato Sepolto vivo (Grave danger), con l'idea della sepoltura e della "resurrezione" e la trovata (d'impatto) della soggettiva del "seppellendo" nel momento in cui viene ricoperto dal terriccio.
Molto belle le scene in notturna, ben girate ed efficaci grazie ad un effetto notte particolarmente riuscito.
Da segnalare, per gli amanti del genere, la presenza di almeno una scena ai limiti dello splatter: l'estrazione della pallottola dalla mano con il coltello, robe che Rambo a confronto pare un'educanda che sviene al solo pensiero del sangue.
Bravi il protagonista Robert Woods (fisionomicamente, un incrocio tra Giuliano Gemma e George Hilton!) nei panni del super 007 nordista Chris Tanner, addestratissimo e affascinante con le donne, che ama senza scrupoli per ottenere informazioni preziose (l'accostamento a James Bond è inevitabile, anche se Tanner è totalmente privo dell'ironia e della leggerezza tipiche del personaggio creato da Fleming) e l'antagonista principale (che, come la milgior tradizione impone, non è il villain a capo dell'organizzazione) John Ireland, che impersona l'avventuriero mezzosangue Tarpas. Si difende con onore anche Roberto Camardiel nelle vesti del medico/spia Alan Curtis, che utilizza il suo studio come copertura per l'attività di controspionaggio.
Bella la colonna sonora "swingata" di Piero Piccioni, con l'organo sempre in primo piano a farla da padrone.










mercoledì 19 settembre 2012

Arizona Colt

1966, di Michele Lupo. Con: Giuliano Gemma, Fernando Sancho, Corinne Marchand, Rosalba Neri, Nello Pazzafini, Roberto Camardiel, José Manuel Martin.

Spaghetto allo stato puro, che gioca a mescolare le carte di Per un pugno di Dollari e Una pistola per Ringo (insieme a Django, i due grandi archetipi della fase iniziale del genere), con un certo gusto e una sorprendente efficacia, grazie ad una sceneggiatura caratterizzata da un ritmo vivace e dialoghi brillanti, farciti di umorismo nero, e la puntuale ed impeccabile regia di Michele Lupo.
Spaghetto puro, dicevo, e gli ingredienti ci sono tutti: Giuliano Gemma in grande spolvero (che rifà una variante un po' più bohémien e cinica di Ringo), Fernando Sancho che, come la tradizione impone, impersona un bandolero messicano feroce e ridanciano, capo di una banda che si rifornisce di nuovi adepti liberando detenuti dalle carceri, con la passione per gli orologi, da cui il nome Gordon Watch («Questo orologio d'oro era di mio padre. Un giorno mi disse: "Figliolo, quando morirò, questo sarà tuo". Cinque secondi dopo era mio!»), il sempiterno vecchietto con la voce di Lauro Gazzolo, l'amtieroe che alla fine parte da solo verso l'ignoto, lasciandosi alla spalle ogni tipo di potenziale legale affettivo, e via discorrendo.
Spassosissimo il personaggio di Doppio Whisky, interpretato con i giusti toni dallo spagnolo Roberto Camardiel.
Gli elementi ripresi dai primi film di Leone e di Tessari sono piuttosto evidenti. Arizona Colt è in prigione e viene liberato; in seguito affronterà ed eliminerà i banditi messicani guidati da Sancho, come Ringo. E come Ringo ha un tormentone: "Ci devo pensare". 
Inoltre, viene ridotto in fin di vita dal villain per poi essere curato e presentarsi al duello finale annunciato da un'esplosione ed utilizzando un espediente che inganna l'antagonista, come lo straniero senza nome quando affronta Ramon. Si potrebbero leggere anche richiami a Django (la menomazione delle mani di Arizona Colt), ma non è chiaro quale dei due film sia stato girato prima, per cui lasciamo in sospeso il commento...
E se da una parte viene ripreso il lato più umoristico di Ringo, nel contempo sono presenti gli elementi più violenti tout court della poetica leoniana. Il body count, infatti, è piuttosto imponente e non mancano scene più forti e del tutto scevre dalla leggerezza messa in scena da Tessari, come lo stragolamento di Dolores (una super sexy Rosalba Neri) o il ferimento di Arizona operato con un certo sadismo da Gordon Watch.
Bella ma espressiva quanto una cabina telefonica la protagonista femminile, interpretata dalla francese Corinne Marchand, verosimilmente imposta dalla coproduzione transalpina.
Peculiare il duello finale, che dopo l'incipit leoniano si svolge interamente fra le bare, nel labortorio di uno stralunato falegname.
Più che discreta la colonna sonora di Francesco De Masi.

mercoledì 29 agosto 2012

The bounty killer

Titolo originale: El precio de un hombre. 1966, di Eugenio Martin. Con: Tomas Milian, Richard Wyler, Halina Zalewska, Mario Brega, Enzo Fiermonte, Manuel Zarzo, Hugo Blanco.

Ottimo film dello spagnolo Eugenio Martin, che confeziona uno spaghetto con tutti i crismi, coadiuvato da un eccellente Enzo Barboni alla fotografia.
La pellicola, fra i vari meriti che può vantare, ha anche quello di aver fatto esordire nel genere Tomas Milian (ancora doppiato da Massimo Turci nella versione italiana, mentre si doppia da sé in quella spagnola), nei panni di uno splendido villain messicano (José Gómez), dalle sfumature vagamente psicotiche. 
Pare che fu Milian stesso a richiedere che il personaggio fosse tratteggiato più approfonditamente rispetto al soggetto originale (dove era un bastardo tout court), per poterlo interpretare in una maniera più convincente. Nello specifico, a seguito delle sue istanze, furono introdotti nella sceneggiatura i richiami al dramma occorso a José da bambino, origine di tutto del suo odio per il mondo e della conseguente inusitata ferocia.
Ovviamente, il Milian che troviamo qua è quello delle origini, proveniente dall'Actors Studio (che rivedremo anche l'anno successivo nel capolavoro di Giulio Questi Se sei vivo spara), ancora lontano da personaggi dai toni farseschi e  gigioneschi quali il Cuchillo dei film di Sollima o il Basco di Vamos a matar, compañeros.
Ça va sans dire, Milian ruba completamente la scena a quello che dovrebbe essere il vero protagonista del film (il bounty killer Luke Chilson), un non certo travolgente Richard Wyler, attore inglese dal volto piuttosto anonimo il quale, come se non bastasse, passa buona parte del film legato ad un palo (nella stalla e sulla piazza del paesino che fa da teatro alla vicenda), ammaccato dalle botte prese da José Gomez e dai suoi scagnozzi. Insomma, se Tomas Miliam raccoglie con grande stile (efficace e non puramente emulativo) lo scettro del villain schizzato e sopra le righe inaugurato da Gian Maria Volonté con i suoi Indio e Ramon, non si può certo affermare che Wyler faccia lo stesso con lo straniero senza nome. A dirla tutta, non si avvicina manco alla punta dello stivale di Clint Eastwood.

Da evidenziare il ruolo ritagliato alla protagonista femminile del  film, impersonato dagli occhioni blu di Halina Zalewska. E già il fatto che si possa parlare di "protagonista femminile" in uno spaghetti western è un fatto degno di considerazione. In più Eden (questo il nome della donna nel film), si dà decisamente da fare (organizza fughe, spara, libera prigionieri e, dulcis in fundo, prende ceffoni...), dimostrandosi particolarmente intraprendente, divenendo così elemento centrale della vicenda e per una volta per questioni solo tangenzialmente sentimentali.

Monumentale Mario Brega, in tutti i sensi: quasi un Bud Spencer ante litteram!
Molto bella la colonna sonora di Stelvio Cipriani che, pur partendo un po' zoppicante e molto old style, si risolleva via via nel corso della vicenda, con notevoli picchi qualitativi (dagli echi morriconiani, soprattutto quando tira fuori dal cilindro organi e chitarre elettriche) nei momenti topici del film.



domenica 26 agosto 2012

Django

1966, di Sergio Corbucci. Con: Franco Nero, Loredana Nusciak, Eduardo Fajardo, José Bodalo, Luciano Rossi, Gino Pernice, Simon Arriaga. 

Django è un fumettone straordinario, che ha impresso a fuoco le sorti del western all’italiana quasi quanto Per un pugno di Dollari di Leone, tanti sono i proseliti e gli epigoni che ha generato. E le indebite appropriazioni onomastiche (all’epoca nessuno degli autori si premurava di registrare i nomi dei protagonisti dei film western quali proprietà intellettuali) ed i seguiti apocrifi che ha originato, al punto di divenire un eponimo western. Anche se il nome Django di western ha poco o niente, essendo stato scelto in omaggio al grandissimo chitarrista gitano Django Reinhardt (amato da Corbucci in quel periodo), il quale ha in comune con il personaggio animato da Franco Nero soltanto una caratteristica: sapeva usare magistralmente la mano, anche se gravemente menomata. Uno suonava la chitarra e l'altro sparava, ma poco importa.
Con tutto quel fango (che fa da teatro, per altro, alla nota lutulenta zuffa meretricia), quelle ambientazioni al limite del gotico, quella fotografia livida, quasi cianotica, nonché il colpo di genio del pistolero solitario che, anziché viaggiare a cavallo come i suoi colleghi, se ne va a zonzo a piedi, lurido, trascinandosi con indolenza una bara (con sorpresa), la pellicola irrompe a gamba tesa sul panorama cinematografico, riscuotendo un notevole successo internazionale e diventando presto un film di culto tra gli appassionati del genere.

E poco importa che la trama sia scarna, risicata e non del tutto originale. Non è uno di quei casi in cui conti qualche cosa.
Per l'epoca, ultra-violento (il picco con la celebre scena dell'orecchio, al limite dello splatter, omaggiata da Tarantino nel suo film d'esordio Le iene) e dal body count gargantuesco.
I villains (ammesso poi che ci sia qualcuno non villain nel film) sono cattivissimi e per di più razzisti: ingegnosa la trovata di farli incappucciare a mo' di ku klux klan, però in rosso, colore che in quell'atmosfera plumbea non trasmette la sensazione di un tono sgargiante e vivace, ma ricorda piuttosto il sangue, che scorre a fiumi. La pensata dei cappucci  verrà poi ripresa da Fulci ne I quattro dell'apocalisse, nella scena del massacro iniziale.

Epocale il duello finale al cimitero, con Django che si presenta con le mani maciullate. Evidentemente, Corbucci aveva un debole per gli antieroei fisicamente menomati, tra pistoleri ciechi (Minnesota Clay), muti (Il grande Silenzio) e monchi (Django).

Con Django, inoltre, Corbucci dà corpo all’archetipo del “suo” personaggio, quasi funereo, dal passato oscuro e tormentato e dal futuro tutt’altro che roseo, che ritornerà in molti dei suoi western (e che verrà portato al parossismo con Il grande Silenzio), un po’ la variante gotica e pessimistica dello straniero senza nome di leoniana memoria. Non che Leone avesse, per altro, una visione così entusiastica delle cose, come testimoniano le sue stesse parole: 
Ford era un ottimista. Io sono un pessimista. I personaggi di Ford, quando aprono una finestra scrutano sempre, alla fine, questo orizzonte pieno di speranza; mentre i miei, quando aprono la finestra, hanno sempre paura di ricevere una palla in mezzo agli occhi
È un po’ come se Leone e Corbucci fossero i Beatles e i Rolling Stones dello spaghetti western: uno è un po' più solare e l'altro un po' più tetro, ma restano pur semre espressione dello stesso movimento, in piena contrapposizione con le regole che erano state del western classico degli anni '40 e '50.
Non si può tacere, infine, il fatto che Corbucci con questo film abbia lanciato nel firmamento Franco Nero, il Clint Eastwood italiano, eccelso protagonista di innumerevoli pellicole nel cinema di genere nostrano degli anni ’60 e ’70. Anche se inizialmente gli fu imposto, lui avrebbe preferito Mark Damon, con il quale aveva appena girato Johnny Oro. In realtà, a pacificare il tutto, in seguito ebbe a dire:
Ford aveva John Wayne, Leone aveva Clint Eastwood, io ho Franco Nero. 
E non è certo un caso che Quentin Tarantino lo abbia fortemente voluto per fare un cammeo nel suo nuovo western (a breve in uscita), Django Unchained. A proposito: sul “furto” del nome, sono passati quasi 50 anni, ma nulla sembra cambiato…





martedì 21 agosto 2012

C'era una volta il West

1968, di Sergio Leone. Con: Charles Bronson, Claudia Cardinale, Henry Fonda, Jason Robards, Gabriele Ferzetti, Frank Wolff, Woody Srode, Lionel Stander, Paolo Stoppa, Jack Elam.


Solo alcune sintetiche riflessioni su uno dei capolavori di uno dei più grandi registi di tutti i tempi, in relazione al quale sono state già posate, ed anche in modo molto autorevole, ragguardevoli distese di inchiostro, reale o virtuale che sia.
Questo è il punto: se con la Trilogia del dollaro Sergio Leone si era di fatto svincolato dall'epopea mitica del west, svuotando di ogni valenza epica o leggendaria (e in taluni casi moralistica) la poetica che fu del western classico americano, fosse quello di John Ford, Anthony Mann o Howard Hawks poco importa, con C’era una volta il West in qualche modo il Nostro affronta l’argomento, ribaltando però completamente la visione del pionierismo epico, costruttivo e colmo di speranza (ed in sostanza, patriottistico), tipico del cinema hollywoodiano, mutandola in un pessimistico scorcio sul futuro. 
Il progresso, infatti, è riletto malinconicamente da Leone come fosse il sicario di un’epopea ormai al crepuscolo, anziché quale chiave di volta quasi positivista per il futuro rigoglioso di una grande nazione, come volevano i cliché del western americano classico (diverso sarà il discorso per il western revisionista e crepuscolare degli anni '70 che, paradossalmente, sarà debitore non poco nei confronti di Leone e del western italiano più in generale).
Non è importante, in fin dei conti, chi sarà a perire nel duello finale: comunque vada, quello non è, e non sarà più, un mondo per Armonica e per Frank.

sabato 18 agosto 2012

Johnny Yuma

1966, di Romolo Guerrieri. Con: Mark Damon, Lawrence Dobkin, Rosalba Neri, Luigi Vannucchi, Fidel Gonzales, Leslie Daniels.

Film pressoché sconosciuto al di fuori dell'alveo degli appassionati dello spaghetto, Johnny Yuma è per contro considerato, a ragione   per chi scrive, un gioiellino misconosciuto dagli adepti del genere.
Si tratta di un film violentissimo (alcune riviste americane, come ad esempio Variety, all'epoca dell'uscita lo giudicarono come il più violento western italiano mai girato, come riporta Marco Giusti nel suo Dizionario del western all'italiana), bilanciato solo in parte dalla faccia da belloccio americano un po' acqua e sapone del protagonista Mark Damon (che farà poi uno splendido e teatrale villain l'anno seguente in Requiescant di Carlo Lizzani), il quale ricorda solo a tratti l'eroe classico del western a stelle e strisce, per poi enucleare nel corso della trama molti tratti tipici dell'antieroe cinico del western nostrano (non esita a prendere a cazzotti Samantha, che seppur luciferina, è pur sempre una donna).
Notevole l'antagonista principale, la cattivissima Samantha Felton, impersonata dall'affascinante Rosalba Neri (che nelle fattezze somatiche ricorda un po' Nicoletta Machiavelli, e scusate se è poco!), coadiuvata nella sua perfidia dal fratello Pedro (l'attore teatrale Luigi Vannucchi), con il quale Guerrieri lascia intravedere tra le righe la possibile esistenza di un rapporto incestuoso. Così come azzeccata è la figura del bounty killer gentiluomo L.J. Carradine (l'attore radiofonico americano Lawerence Dobkin, perfetto per la parte).
Gli elementi melodrammatici che Guerrieri metterà sapientemente in risalto l'anno successivo con il bellissimo 10.000 Dollari per un massacro sono già presenti in nuce nella pellicola (si pensi al rapporto amoroso tra Samantha Felton e L.J. Carradine, che tormenta il cacciatore di taglie o al legame che si crea tra Johnny ed il bambino), ma sono sovrastati e messi in secondo piano dalla violenza rappresentata, davvero notevole per l'epoca, che raggiunge il suo culmine nella sfida impari tra Pedro (armato di lancia, a cavallo a mo' di cavaliere medioevale) e Johnny e, soprattutto, nell'efferata uccisione del bambino - che aveva dato asilo a Johnny, nascondendolo nella propria dimora -  a calci e pugni, una scena davvero struggente e disturbante.
Molto bello anche il duello conclusivo, dal body count pantagruelico e l'insolito finale con la scomparsa decisamente sui generis della cattiva...
Sceneggiatura di Fernando Di Leo, che ancora una volta si dimostra uno scrittore di livello superiore in ambito western.
Ottima la colonna sonora della "Morricone in gonnella" dello spaghetti western, la bravissima Nora Orlandi.








martedì 14 agosto 2012

Viva la muerte... tua!

1971, di Duccio Tessari. Con: Franco Nero, Eli Wallcah, Lynn Redgrave, Horst Janson, Eduardo Fajardo, Victor Israel, Marilù Tolo. 

Con Viva la muerte... tua! Duccio Tessari mette in scena quello che idealmente sembrerebbe essere il terzo capitolo della saga in salsa tortilla western di Sergio Corbucci, dopo Il mercenario e Vamos a matar, compañeros. Troppo evidenti sono, infatti, la ripresa dell'impianto della trama (il classico canovaccio in cui il rubagallime messicano di turno diventa un eroe rivoluzionario quasi per caso, a seguito dell'incontro/scontro con lo straniero), del perfido antagonista che sembra uscito da un fumetto (qua, ahimè, non c'è più l'immenso Jack Palance, ma un onesto Horst Janson che se va a in giro con un busto d'acciaio ricalcato sul suo corpo muscoloso) ma, soprattutto, del personaggio interpretato da Franco Nero che, dopo Lo Svedese ed Il Polacco, impersona questa volta Il Russo, il Principe Dmitri Vassilovich Orlowsky.
Analogamente, seppur in maniera meno sfacciata, la pellicola sembra strizzare l'occhio a Giù la testa di Sergio Leone per quanto concerne l'ambientazione temporale (gli anni '10 del '900), l'utilizzo in quantità di dinamite, la presenza della giornalista filo rivoluzionaria irlandese (come il Sean di James Coburn) interpretata da Lynn Redgrave  e la presenza quasi ingombrante di automobili e motociclette, a sancire una volta per tutte che i tempi sono cambiati. Sul finale, fanno addirittura capolino due autoblindi!

A tutto ciò si aggiunga che Duccio Tessari calca ulteriormente la mano sui toni farseschi (che già erano presenti nei tortilla western di Corbucci), a volte financo cialtroneschi - si può quasi dire che porti alle estreme conseguenze il discorso iniziato anni addietro con Una pistola per Ringo, sulla scorta dell'enorme successo de Lo chiamavano Trinità che, come noto, ha imposto una decisa virata in chiave gigionesca  al western italiano, ormai in fase discendente - e picareschi, prestando una notevole cura per le (ottime) scene d'azione e dando uno spiccato rilievo al registro avventuroso.

Nonostante niente di nuovo sia apparso sotto il sole, l'esplosiva coppia Wallach/Nero funziona alla grande, con l'americano che dà libero sfogo a tutta la sa incontenibile verve e l'italiano che prosegue il discorso già iniziato con i due citati film di Corbucci, interpretando la parte dell'avventuriero europeo cinico, brillante e interessato solo al denaro e la regia di Tessari è più che puntuale, con qualche colpo di classe qua e là.
Molto belli i titoli di testa che, utilizzando solo la musica e i fermo immagine, raccontano a mo' di fumetto tutta la rapina iniziale compiuta dal Russo, travestito da pastore protestante durante un matrimonio.
Assolutamente pregevole il commento musicale di Ennio Morricone e Gianni Ferrio, che segue con efficacia i toni da commedia che aleggiano per gran parte del film, proponendo temi orecchiabili, accattivanti e spesso scanzonati.
In definitiva, un prodotto ben confezionato e assolutamente divertente, pur senza essere un capolavoro e pur rifacendosi in maniera più che esplicita ad altri film del filone.


domenica 12 agosto 2012

Texas, addio

1966, di Ferdinando Baldi. Con: Franco Nero, Alberto Dell'Acqua, José Suarez, Luigi Pistilli, Livio Lorenzon, José Guardiola, Elisa Montés.


Texas, addio è uno di quei western italiani della prima ondata di spaghetti post leoniani dall'aria tetra, la cui trama fa il paio con quella di Le Colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro di Lucio Fulci, visti i toni da tregenda greca, richiamati dagli echi edipici dei drammi famigliari a vario livello, che man mano si disvelano nel corso della narrazione.
E come nel film di Fulci, del resto, il protagonista indiscusso è un grande Franco Nero, la cui interpretazione è impreziosita dal clamoroso doppiaggio di Enrico Maria Salerno, che le dà un valore aggiunto in termini di coolness non indifferente (il richiamo al Clint Eastwood della Trilogia del Dollaro è pressochè inevitabile oltre che, evidentemente, voluto dalla produzione). Nero - calzando con classe infinita un notevole trench di pelle - interpreta la parte dell'integerrimo sceriffo dalla mano svelta (e dalla battuta pronta: i dialoghi sono davvero brillanti) Burt Sullivan,  mosso per tutta la durata della pellicola dall'implacabile ed inesorabile sete di vendetta nei confronti di Cisco Delgado (José Suarez), l'uomo che tempo addietro ebbe ad uccidere suo padre. Vendetta commista al desiderio di giustizia: il suo obiettivo, infatti, non è tanto quello di eliminare Delgado, quanto quello di riportarlo in Texas per farlo processare. Questi, infatti, si trova in Messico (teatro di quasi tutta la storia), ove ormai risiede da tempo, ricco, potente e spietato, come si conviene ai villains della peggior (miglior) specie.
Piuttosto anonima l'interpretazione di Alberto Dell'Acqua, nei panni del fratello di Burt, Jim Sullivan, per quanto il personaggio che anima sia una figura centrale della vicenda, mentre ottimi sono tutti i comprimari, alcuni dei quali sono i soliti noti, come ad esempio Luigi Pistilli, nei panni dell'avvocato a capo dei ribelli. Su tutti, però, spicca Livio Lorenzon, davvero eccelso nel caratterizzare la figura di Miguel, l'alcalde che si muove nell'alveo della pellicola mostrando molte ombre (la gustosissima scena in cui, sbronzo e ridanciano, fa fucilare dei ladruncoli dando come segnale per l'esecuzione l'estrazione del tappo dalla borraccia da cui si abbevera alcolicamente) ed alcune luci (sul finale, quando viene svelato il suo passato e, mestamente, si defila dando la sua pistola a Burt).
Notevole l'utilizzo dei paesaggi dell'Almeria da parte di Baldi, il quale conduce il film con assoluto mestiere (con una particolare cura per le scene d'azione) e senza sbavature.
Co-sceneggiato da Franco Rossetti (già co-autore di Django insieme a Sergio Corbucci) e regista di El desperado.


mercoledì 8 agosto 2012

La collina degli stivali

1969, di Giuseppe Colizzi. Con: Terence Hill, Bud Spencer, Woody Strode, Lionel Stander, Glauco Onorato, Luciano Rossi, Victor Buono, Eduardo Ciannelli.



Ultimo capitolo della trilogia di Giuseppe Colizzi, La collina degli stivali è un film strano, che viaggia a due velocità. La prima parte del film, infatti, è davvero notevole sotto molti punti di vista: la regia raffinata di Colizzi, l'interpretazione di Terence Hill (al suo massimo in ambito extra "sorrisi & cazzotti"), che dimostra di essere davvero bravo nella parte del pistolero un po' meno infallibile del solito, braccato come una lepre durante una battuta di caccia, e l'ambientazione - insolita e fascinosa - circense (qua i classici nani e ballerine ci sono non solo metaforicamente), che sembra quasi voler essere un omaggio in filigrana a Fellini.

Al giro di boa, per contro, la pellicola imbocca una strada tortuosa. La sceneggiatura si fa via via sempre più macchinosa e il ritmo, di conseguenza, scende, fino a far divenire la trama faticosa da seguire. Anche l'aver messo in secondo piano il personaggio interpretato da Bud Spencer non è del tutto comprensibile, visti i risultati non trascurabili che il gigante partenopeo aveva ottenuto quale co-protagonista accanto a Terence Hill in Dio perdona... io no! e I quattro dell'Ave Maria.
Il finale è pasticciato, non è la degna chiusura che la trilogia avrebbe meritato, con scazzottate surreali, sordomuti che riacquistano udito e favella, e un happy ending che sembrerebbe appartenere più alla commedia di bassa lega, nonostante tutta la serie di morti ammazzati che i protagonisti e gli antagonisti si lasciano alle spalle per tutta la durata del film.
Nota di colore: partecipazione al film schizofrenica per Glaudo Onorato, che dà il fisico al villain Finch (venendo, per forza di cose, doppiato!) e, come di consueto, la voce a Bud Spencer.
Musiche di Carlo Rustichelli e Riz Ortolani. Molto bello e un po' insolito il motivo jazzato che apre il film e che poi verrà ripreso più volte nel corso della narrazione.

sabato 4 agosto 2012

I quattro dell'Ave Maria

1968, di Giuseppe Colizzi. Con: Eli Wallach, Terence Hill, Bud Spencer, Brock Peters, Kevin McCarthy, Remo Capitani, Bruno Corazzari, , Livio Lorenzon.

Secondo capitolo della trilogia western di Colizzi, I quattro dell'Ave Maria con il suo ritmo scoppiettante ed i suoi dialoghi brillanti è forse addirittura migliore del pur ottimo predecessore Dio perdona... io no! La vicenda riprende là dove si era conclusa con il capitolo precedente (cioè a seguito del duello "esplosivo" con Bill Santantonio), e naturalmente i personaggi impersonati da Bud Spencer e Terence Hill sono i medesimi. Una consequenzialità logica e temporale più unica che rara nel mondo del western italiano dove, per contro, hanno sempre trovato terreno fertile i seguiti apocrifi, incentrati per lo più sul ratto del nome del pistolero più à la page del momento (Django uno dei più brutalizzati, soprattutto all'estero, dove nelle traduzioni avrebbero speso il nome del personaggio di Corbucci anche se il protagonista fosse stato Paperino, purché munito di cappellaccio da cowboy), in virtù del sacro botteghino. La pellicola, come accennato, presenta un incedere narrativo incalzante, grazie all'equilibrato melange di elementi presi a prestito da vari generi o sottogeneri: il revenge movie (la vendetta di Cacopoulos vei confronti dei suoi ex soci), il road movie (il continuo girovagare), l'heist movie (il "colpo" alla sala da gioco), il tortilla western (la trasferta messicana), tenuti insieme da una costante aura avventurosa in chiave picaresca - con qualche inevitabile concessione alla consueto cinico humor da "spaghetti" - a fare da delizioso collante.
E se da un lato continua la cementificazione del duo Spencer-Hill, con l'introduzione (seppur in maniera molto misurata: il film resta comunque uno spaghetti western "classico" a tutti gli effetti, cinico e dal body count non trascurabile) di alcune gag (come quella iniziale della posa fotografica o quella della sfida a cazzotti con il nerboruto boxeur di colore), che diverranno tipiche della coppia in futuro, d'altro canto viene affiancato ai due nascenti astri italiani, un gigante quale Eli Wallach, istrionico e sempre sopra le righe, che ci regala un'interpretazione che non ha (quasi) nulla ad invidiare a quella de Il buono, il brutto, il cattivo (la quale, certamente, prende a modello), che alla fine lo farà emergere come il vero protagonista, il perno centrale della trama. La scheggia impazzita che permette a Bud Spencer e Terence Hill di affiatarsi ulteriormete proseguendo per la loro strada, senza la preoccupazione di doversi sobbarcare completamente il peso della riuscita del film.
La chiusura è tutt'altro che brutta, ma la tipica valenza catartica (e spesso tragica) del duello viene un po' (forse troppo) stemperata dal tono lievemente farsesco e, soprattutto, dal fatto che mancano i morti ammazzati tra i contendenti principali: è un po' come una finale di coppa che termina zero a zero.

giovedì 2 agosto 2012

El desperado

1967, di Franco Rossetti. Con: Andrea Giordana, Rosemary Dexter, Piero Lulli, John Bartha, Franco Giornelli, Aldo Berti, Giovanni Petrucci.


Passato agli onori della cronaca (va beh, proprio agli onori magari no, diciamo che qualche appassionato ne ha sentito parlare) perchè citato da Quentin Tarantino come uno dei suoi spaghetti western preferiti, El desperado non è certo un capo d'opera, ma è un film godibile, che merita di essere riscoperto dagli amanti del genere. L'ennesimo esempio di un prodotto girato con due lire ma dai risultati certamente apprezzabili.
La pellicola rimanda alla visione corbucciana del genere (non a caso Rossetti è stato cosceneggiatore di Django), a partire dalla totale amoralità di quasi tutti i personaggi che si affacciano alla trama, i quali si muovono in un west violento e animato da iene senza scrupoli. Ma anche la città abbandonata, sinistra e quasi spettrale, il fango presente in gran quantità (ed in qualche modo "protagonista" nel corso deil duello conclusivo...) ed il finale con l'antieroe di turno che prende comunque la sua strada, dopo un parziale riscatto, agli occhi dello spettatore, nella parte centrale del film.
Andrea Giordana è davvero efficace nella parte del pistolero "all'italiana", ed è un vero peccato che sia stato utilizzato poco (o male) nel genere (penso a Quella sporca storia nel west di Enzo G. Castellari), perché la faccia, per quanto non eccedesse in espressività, era una di quelle giuste. Non è da meno l'antagonista Franco Giornelli, davvero bravo nelle vesti del villain principale.
Qualche piccola ingenuità (e qualche buchetto...) nella sceneggiatura fa un po' scendere il giudizio complessivo sulla pellicola, che comunque resta in larga parte positivo.
Il commento sonoro di Gianni Ferrio è assoluitamente pregevole.

martedì 31 luglio 2012

Requiescant

1967, di Carlo Lizzani. Con: Lou Castel, Pier Paolo Pasolini, Mark Damon, Ninetto Davoli, Franco Citti, Barbara Frey, Mirella Maravidi. 

 
Più che onesto (ma neache memorabile, visti i valori in campo...) western dai toni terzomondisti, diretto dal regista "impegnato" Carlo Lizzani con la partecipazione niente di meno che di Pier Paolo Pasolini nella parte del prete rivoluzionario Don Jaun (con Ninetto Davoli e Franco Citti al seguito), quasi a voler sussidiare la fusione simbolica tra le istanze della sinistra radicale e quelle del mondo cattolico più puro.
La presenza di Lizzani (che nello stesso anno firma un altro western, Un fiume di Dollari) e Pasolini dimostra una volta di più che nel quinquennio d'oro degli "spaghetti" un po' tutti, per vocazione o per "costrizione", si approcciavano al genere.
Bravo Lou Castel, la cui espressività un po' statica giova al fine di animare il pistolero un po' ingenuo e timorato di Dio, che intona il requiescant in pace dopo aver accoppato il malcapitato di turno, sempre nel nome della giustizia e delll'affrancamento degli oppressi penoes dal perfido latifondista yankee. La pellicola, infatti, è un tortilla western un po' sui generis, visto che mette a fuoco non lo scontro istituzionale e politico in senso stretto rappresentato dalla rivoluzione, ma l'altra faccia della medaglia, ovvero la contrapposizione, più ideologica e di derivazione più prettamente marxista (e intellettuale), tra il capitale (ovviamente rappresentato dal nordamericano) e il sotto-proletariato sfruttato.

Da un punto di vista prettamente stilistico, paradossalmente, la direzione di Lizzani è piuttosto accademica e sotto molti punti di vista sembra attingere più dal western classico americano che non al "rivoluzionario" western italiano.
Commento sonoro di Riz Ortolani, senza infamia e senza lode.

domenica 29 luglio 2012

Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro

1966, di Lucio Fulci. Con: Franco Nero, George Hilton, Nino Castelnuovo, Linda Sini, Giuseppe Addobbati, Tom Felleghy.
Primo dei tre western diretti da Fulci, Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro mostra già in nuce il suo gusto per il particolare truculento e la sua attitudine al cinema della crudeltà, che si sarebbero poi manifestati il tutto il loro "splendore" da lì a pochi anni con le pellicole horror (grazie alle quali ha assunto lo status di regista di culto) e che avrebbero trovato in I quattro dell'apocalisse (per chi scrive, il suo western migliore), un'importante tappa intermedia. 
Il film, ovviamente, è violentissimo e quasi del tutto privo dell'ironia (nera) tipica degli spaghetti western, fatte salve un paio di battute di Jeffrey, il personaggio interpretato da George Hilton (perennemente sbronzo ma preciso come un cecchino con la Colt) e del curioso tuttofare cinese. Franco Nero, va beh, è Franco Nero, il Clint de noantri. E di Clint indossa pure i vestiti in questo film: i costumi di scena sono i medesimi utilizzati da Eastwood nella Trilogia del Dollaro!
Merita senz'altro una menzione anche Nino Castelnuovo (ve lo ricordare il tizio che saltava la staccionata nella celebre pubblicità dell'Olio Cuore degli anni '80? Beh, è lui), assolutamente convincente nella parte (per lui insolita) dello psicotico e feroce fratellastro di Nero.

Molto peculiare la fotografia, a tratti straniante, con le tonalità bianche luminosissime (pur senza essere sovraesposte), contrappuntate da colori cupissimi nelle scene più buie e da un cielo perennemente grigio, e non per fattori meteorologici.
La sceneggiatura è di Fernando Di Leo e sembra ricercare alla lontana ispirazione dalla tragedia greca (lo conferma lui stesso un un paio di interviste), visti gli edipici ammazzamenti famigliari e le relative implicazioni, inconsuete per un western. 

Musiche del grandissimo Piero Umiliani.

sabato 28 luglio 2012

Dio perdona... io no!

1967, di Giuseppe Colizzi. Con: Terence Hill, Bud Spencer, Frank Wolff, José Manuel Martin, Frank Braña, Francisco Sanz, Gina Rovere.

Primo capitolo della trilogia di Giuseppe Colizzi (seguiranno I quattro dell'Ave Maria nel 1968 e La collina degli stivali nel 1969),  Dio perdona... io no!, oltre ad essere un assolutamente pregevole spaghetti western, ha il non trascurabile merito di aver messo insieme per la prima volta sul grande schermo come protagonisti (si erano già incrociati in gioventù su un paio set, con ruoli molto marginali, ma mai interagendo) la coppia di attori più celebre, sondaggi alla mano, del cinema italiano: Bud Spencer (Carlo Pedersoli) e Terence Hill (Mario Girotti).
Certo, siamo ancora lontani dalla canonizzazione della coppia in chiave comica, perfezionata irreversibilmente da E.B. Clucher (Enzo Barboni) con il celeberrimo Lo chiamavano Trinità. Terence Hill è ancora un giovane virgulto ingaggiato - all'ultimo momento, quale rincalzo di Peter Martell (Pietro Martellanza), infortunatosi all'inizio delle riprese - per lo più perchè assomiglia a Franco Nero (e come tale si comporta e recita) e Bud Spencer (già doppiato dalla sua "voce" storica, Glauco Onorato), dopo qualche esperianza attoriale giovanile di poco conto, è al suo primo lungometraggio da protagonista. Pare sia stato scelto da Colizzi sostanzialmente perché il regista aveva bisogno di un personaggio con la sua stazza, e il mercato non offriva altro...
Pur tuttavia, in embrione si possono già intravedere tutte le caratteristiche salienti del duo. Le scazzottate (anche se qua sono verosimili e fanno male: lasciano lividi, provocano ferite sanguinolente e fanno perdere i sensi), la caratterizzazione della coppia, con un personaggio astuto e veloce e l'altro un po' più tonto e possente, il continuo battibeccare tra i due a guisa di cane e gatto, la bonaria composizione della vicenda. Anche un certo buonismo, che sarà proprio della "poetica" del duo, può essere intercettato in filigrana: Earp (Bud Spencer) impersona  il pistolero onesto e a suo modo integerrimo (quasi reazionario, in ambito spaghetti!) che vuole riportare il malloppo all'assicurazione per cui lavora e Doc (Terence Hill) recita la parte del Clint Eastowood e del Franco Nero di turno, ma alla fine, per quanto da una parte espliciti la sua volontà di appropriarsi dell'oro, dall'atra lascia intendere tra le righe che non è poi del tutto certo che finirà così.
Ciò detto e giustamente rimarcato, la nascita del duo Spencer-Hill non deve far passare in secondo piano la prova decisamente convincente e a tratti memorabile dell'antagonista, Frank Wolff, (nei panni dell'astuto e perfido Bill Santantonio), per l'occasione doppiato da Oreste Lionello (sarà per questo che mi ricorda in maniera precipua Gene Wilder, al quale in effetti assomiglia solo vagamente nei tratti somatici).
La trama del film è l'ennesima (ma ben congeniata) variazione sul tema del classico archetipo leoniano, così come molto leoniana è la direzione di Colizzi, con ambientazioni, primissimi piani e caratterizzazione dei personaggi che devono non poco all'insegnamento di Bob Robertson. Non di meno, il film appassiona, scorre con un buon ritmo e non ha assolutamente il sapore dell'emulazione stantia, sotto nessun punto di vista, con tanto di mexican standoff "monco" sul finale.
Ottima (questa, per nulla morriconiana!) la colonna sonora di Carlo Rustichelli, il quale, come anche in altre circostanze, a tratti strizza l'occhio più ai classici hollywoodiani che non ai commenti sonori tipici dello "spaghetti".

giovedì 26 luglio 2012

Sentenza di morte

1968, di Mario Lanfranchi. Con: Robin Clarke, Richard Conte, Enrico Maria Salerno, Adolfo Celi, Tomasa Milian, Luciano Rossi.


Sentenza di morte è, di fatto, un film ad episodi, l'unico che mi venga in mente nell'alveo dello spaghetti western.
La vendetta di Cash (un inespressivo e un po' anonimo Robin Clarke) pare essere un mero pretesto per lo sviluppo delle quattro vicende. L'intreccio così strutturato porta al parossismo sul piano narrativo (e su quello della caratterizzazione dei villains) l'idea, già sviluppata da Giulio Petroni in Da uomo a uomo, della ricerca ad uno ad uno degli assassini della propria famiglia (in questo caso del fratello) per poter compiere la più classica delle vendette. Idea per altro ripresa anche da Quentin Tarantino con i due volumi del revenge movie per eccellenza degli anni 2000, Kill Bill.
Veri protagonisti - e pezzi da novanta del film - sono i villains che Cash insegue per compiere la propria vendetta. I "cattivi" di super lusso sono, nell'ordine: Richard Conte (il più umano e fragile), uno straordinario Enrico Maria Salerno (il raffinato ed acuto gambler), Adolfo Celi (il sedicente prete col vizietto della Colt) ed un allucinato Tomas Milian, bravissimo nella parte (che sembrerebbe studiata pensando a Klaus Kinski) dell'albino biancovestito con il debole per l'oro e per le donne bionde.

Ad ogni vendetta di Cash l'atmosfera cambia radicalmente (come detto, si tratta di veri e propri episodi, uniti solo dal comun denominatore della vendetta, che è però poco più di un - eccellente - pretesto) e man mano che si passa al villain successivo, il clima si fa sempre più tetro e straniante, in un climax ascendente che porta sino al finale, decisamente sopra le righe, a metà strada tra l'horror gotico ed il pop lisergico.
Particolarissima (e bella) la colonna sonora di Gianni Ferrio, imbottita di inserti ed influenze jazz.